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venerdì 19 febbraio 2010

la Protezione Civile e la politica

La modifica al decreto alla Commissione Ambiente della Camera e l’inchiesta della magistratura seguono il loro corso normativo e giudiziario, ma ancora una volta sono le questioni ambientali a misurare e a definire la qualità della politica e della cultura ad essa sottesa. Sono di pochi giorni fa le immagini nei telegiornale degli Ischitani che facevano muro contro le forse dell’ordine a difesa degli edifici abusivi, edificati spesso in zone a rischio idrogeologico.

Per questo le immagini che dai Nebrodi ci hanno mostrato la montagna, con la sua terra, i suoi ulivi e le sue case muoversi verso valle come una gigantesca colata lavica ci chiedono anche un altro sguardo per una riflessione efficace sulla Protezione civile in Italia e sulla cultura politica nell’amministrazione della cosa pubblica e del territorio cui si riferisce.

Il Servizio nazionale per la Protezione civile nasce con la legge 24 febbraio 1992, n. 225, “al fine di tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, catastrofi o altri eventi calamitosi”.

La Protezione civile coinvolge l’articolazione dello Stato dal centro alla periferia e la società civile attraverso le organizzazioni di volontariato. Questa struttura permette il coordinamento centrale e, ad un tempo, una grande elasticità e tempestività operativa. La Protezione civile vede il coinvolgimento operativo di circa 800.000 volontari organizzati in quasi 4.000 gruppi, coordinati alle amministrazioni locali e ai corpi dello Stato, dal Corpo Forestale a quello dei Vigili del Fuoco, dalle Forze armate a quelle di polizia, dal Corpo nazionale di soccorso alpino e speleologico al Corpo forestale, alle società legate alle infrastrutture come Enel e Telecom, così come la Croce Rossa e gli Istituti di Ricerca scientifici. Una elevata concentrazione di professionalità, anche tra i volontari, unita ad una notevole intensità motivazionale legata alla missione e alla natura, anche drammatica, degli interventi. In questi giorni la Protezione civile è stata paragonata ad un esercito, ad una forza di pace, ma se uniamo allo sguardo descrittivo sulla sua struttura le funzioni che nel tempo le sono state affidate essa si presenta in modo plastico come lo Stato stesso. Indubbiamente la consapevolezza che in questi giorni sta prendendo corpo, mista ad indignazione, stupore e sconforto, pone ad una tale struttura questioni di legalità legittimità e di controllo. Non si tratta soltanto di separare l’organizzazione e la gestione dei grandi eventi previsti e annunciati anni prima, siano i mondiali di nuoto a Roma, i raduni religiosi o il prossimo Expo 2015 a Milano, dal servizio nazionale che si occupa delle catastrofi o delle emergenze “imprevedibili”, perché annunciate ma non considerate. Anche qui ci viene chiesto un ulteriore sforzo di riflessione: sommare ed equiparare le catastrofi e le calamità ai grandi eventi e ai grandi raduni, rendere sinonimi l’urgenza e l’emergenza non richiede solo deroghe che costituiscono l’ambiente naturale per distorsioni e degenerazioni illecite. Ciò che impressiona è constatare che, delega dopo delega, un Paese invece di semplificare una ridondante e anche contraddittoria articolazione di norme e competenze sceglie di prescindere da esse.

La politica pubblica abdica così al suo ruolo ed al suo compito di governo dei processi e si affida in outsourcing ad un Servizio nazionale connaturato alle calamità e alle emergenze, che una buona pianificazione e gestione di infrastrutture e territorio dovrebbe evitare, scongiurare e ridurre.

Proprio la buona azione della Protezione Civile e dei suoi tecnici ha evidenziato questa alterazione. Il dissesto idrogeologico nel messinese dopo l'alluvione del 2007 è oggetto di una inchiesta della Procura. I tecnici della Protezione Civile nella loro relazione del 2008 ai pubblici ministeri rilevarono che: "La causa scatenante le forti alluvioni è stata certamente l'elevata intensità di eventi meteorici, ma non può non essere presa in considerazione la leggerezza di alcune scelte territoriali, che si sono rilevate determinanti negli effetti provocati dal dissesto idrogeologico. Scelte che hanno fatto sì che il degrado dei corsi idrici del messinese diventasse un fenomeno ormai generalizzato e diffuso capace di provocare un vero e proprio disastro". Sono state riscontrate responsabilità? Di più: Calogero Ferlisi, comandante del nucleo per la tutela del territorio dei vigli urbani di Messina lungo tre anni ha denunciato 1200 edifici abusivi, 200 dei quali erano nel borgo della catastrofe alluvionale dello scorso 2009 a Giampilieri. Di fronte ad un’emergenza descritta e agli eventi catastrofici previsti come si è mossa articolazione istituzionale che da’ corpo e definisce la politica pubblica nel territorio, Sindaci, Presidenti di Provincia, Prefetti, Governatore? Non pervenuto. La giunta regionale siciliana, a seguito del dissesto idrogeologico catastrofico che interessa il comune di San Fratello, ha dichiarato lo stato di calamità per gran parte del territorio della provincia di Messina e parte della provincia di Palermo. La giunta ha inoltre deliberato la richiesta dello stato di emergenza al Consiglio dei ministri.

Certamente ora interverrà in aiuto degli sfollati la Protezione Civile, lo farà con la consueta abnegazione e i suoi operatori devono essere confortati dalla stima di sempre. Troppo semplice, e un po’ razzista, ridurre questo succedersi di fatti e di mancanze ad una vicenda Pirandelliana da circoscrivere e da commentare davanti al televisore, ogni italiano non deve andare molto indietro nella memoria della sua regione per trovare esempi simili, purtroppo.

Non a caso Bertolaso chiese a Berlusconi 25 miliardi di euro per mettere in sicurezza tutte
le zone a rischio idrogeologico presenti sul territorio nazionale. L’ignavia di chi ha competenze e funzioni per la pianificazione e la gestione del territorio può indignare, ciò che deve preoccupare è la mancanza di una cultura politica capace di vedere il proprio territorio, la propria regione, il proprio Paese, come un ecosistema complesso del quale sentire la responsabilità. Per questo la semplificazione normativa, pur necessaria, non può significare l’assenza di regole e procedure che vedano, ad esempio, la valutazione di impatto ambientale come elemento interno alla progettazione di un intervento e non come sua successiva mitigazione. Agire nel rispetto del principio di precauzione non significa immobilismo ma tener conto di tutte le indicazioni presenti. I sistemi informativi territoriali e la partecipazione informata nell’era digitale sono utili proprio per “fare bene” nel rispetto dell’interesse generale e della sostenibilità ambientale. Non sempre il “fare presto e comunque” è altrettanto efficace.

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